di Andrea Franchi
Mi è stato possibile venire solo due volte ad Agorà, data la distanza da Pordenone e relativi problemi di pernottamento: non posso abusare dell’ospitalità (che peraltro può esser occasione di nuove relazioni). Leggo tuttavia il materiale.
Credo che Agorà sia un luogo importante per un confronto sul lavoro fra donne e uomini e per un ripensamento radicale di questa parola – lavoro – che richiede l’uso di nuovi concetti e di un nuovo immaginario, che possono venire oggi principalmente dall’esperienza e dall’elaborazione delle donne.
Una nozione fra tutte: cura. Se la cultura maschile, capitalista e anti, ha sempre parlato di produzione, la cultura delle donne parla di riproduzione. Io la intendo in un significato largo, che implica quello di cura. Riprodurre è riprodurre la vita e non solo beni necessari, che fanno peraltro parte di un complesso di merci, molte delle quali tutt’altro che necessarie e molte, anzi, nocive, dato che lo scopo primo della forma-merce è produrre un profitto per chi ne controlla il sistema produttivo e i mercati. Ri-produrre la vita è all’insegna del primum vivere, che non è sopravvivere.
Riprodurre la vita vuol dire produrre i beni necessari e utili dentro un contesto di relazioni positive tenute insieme dalla cura per la vita, per gli esseri umani, nella loro differenza sessuale e tenuto conto anche delle singolarità, per tutti i viventi e per l’ambiente, che non è mero sfondo inerte, né deposito di materiali e materie prime a disposizione di chi se le accaparra con violenza, spesso non solo ‘economica’.
Riproduzione significa restituire all’economia il significato di governo del luogo in cui abitano gli esseri umani e gli altri viventi, togliendole quello corrente, il quale è il nome di un governo della vita per opera di quella potente forma di dominio che è il denaro.
La crisi attuale non è solo né soprattutto crisi ‘economica’ nel significato corrente, ma crisi economica in senso largo, crisi cioè dell’abitare la terra. E’ crisi della punta estrema di una civiltà maschile che è ormai divenuta cieca portatrice di morte proprio a causa di una parzialità che ha cercato di essere il tutto, generando quindi violenza sistemica. Questa parzialità estrema si chiama finanza che governa mediante il debito, il quale “è una sorta di salario sociale al contrario, in quanto sottrae ricchezza alla gente sia attraverso il debito pubblico, che significa minori servizi sociali, sia attraverso i debiti privati”.
La crisi, che nel significato originario greco vuol dire separazione, scelta, decisione, pur producendo passioni tristi, disperazione, depressione, offre anche delle opportunità di ripensare, appunto, il lavoro, l’attività umana necessaria per ri-produrre la base della vita, senza staccarlo e/o contrapporlo all’attività relazionale e creativa. Perché queste opportunità possano essere viste, occorrono luoghi in cui si elabora un nuovo immaginario del lavoro, un pensiero, delle progettualità. Uno di questo, oggi, è Agorà.
Oggi, mentre, nei confronti del classico lavoro fordista, l’attività dei cosiddetti servizi – che è attività relazionale, della formazione, della ricerca – diventano sempre più importanti (anche per produrre profitto); mentre diventano sempre più diffusi gli strumenti di comunicazione istantanea; e diventa sempre più precaria la condizione di chi lavora, di chi cerca lavoro senza riuscirci, di chi ha perso il lavoro, della gran parte della popolazione; l’esigenza di una nuova cultura del lavoro, ma dell’attività sociale in generale, appare richiesta da questa stessa condizione.
Tutto il lavoro oggi è o tende a divenire precario. Ciò può permettere di superare la vecchia cultura del lavoro. Lavoro precario vuol dire che non è possibile separare lavoro e vita (anche la tecnologia spinge in questa direzione).
Alcuni sostengono che oggi l’intera attività sociale è messa al lavoro, ma l’attività riproduttiva è sempre stata abusata dal capitale, perché senza di essa il lavoro riconosciuto sarebbe stato impossibile: l’ha nascosta dentro la famiglia, scaricandola sulle donne.
In tal senso il reddito di cittadinanza o piuttosto di esistenza può essere un’indicazione, tutta da elaborare, verso un nuovo orizzonte del lavoro. Non mi sfugge che ci sono molti problemi, ma reddito di cittadinanza, reddito sociale o piuttosto d’esistenza è il nome di un percorso da iniziare.
Tutto ciò significa anche superamento dell’obsoleta forma sindacale, la cui passività attuale prima che a incapacità o complicità, che pur ci sono, è dovuta a carenza culturale nei confronti delle trasformazioni profonde del lavoro intervenute negli ultimi decenni, per andare tendenzialmente verso forme di autorganizzazione dei lavoratori.